(testo Tratto da Pratolino, il sogno alchemico di Francesco I de’ Medici, miti, simboli e allegorie di Costanza Riva)
“La maraviglia ò lo stupore non è altro, che un gran desiderio di sapere la causa di alcuni effetti.”
Così Francesco de’ Vieri, filosofo dalle profonde conoscenze ermetiche alla corte di Francesco I, si esprime nel suo Delle meravigliose Opere di Pratolino & Amore, descrivendo lo stato d’animo che il Parco di Pratolino a quell’epoca riusciva a suscitare. Egli stesso indica l’arte della “maraviglia” quale risultato primo di tutte le attività umane e di tutte le scienze, sentimento di stupore improvviso che si può cogliere solo con “sensi specolatissimi & moralità”.
Quando Francesco I cominciò a maturare l’idea dell’ambizioso progetto forse era questa reazione, improntata alla bellezza ed al fascino dell’inatteso, che voleva risvegliare.
Con quello stesso stato d’animo, cerchiamo adesso di calarci in quel lontano 1568 che vide l’acquisto dei terreni sui quali sarebbe sorto lo straordinario parco.
“Non lunge da Firenze, più di cinque miglia uscendo a man destra della strada per cui si va a Bologna circa due trar d’arco risiede la Villa di Pratolino fatta edificare dal Gran Duca Francesco per diporto del mese di luglio e d’agosto.”
Il 15 settembre 1568 Francesco I iniziò le trattative per l’acquisto dei primi poderi di quell’ampia estensione di terreno che di lì a pochi anni avrebbe visto nascere il “Parco delle maraviglie” di Pratolino.
La scelta di un territorio alquanto singolare posto sulle colline sovrastanti Firenze, prossimo alla città ma al tempo stesso defilato, situato sull’importante direttrice di traffico che conduceva a Bologna, non fu certo casuale. L’acquisto di quelle terre e l’ideazione di un preciso piano iconologico affidato al suo fedele architetto Bernardo Buontaleti, denotano che nella mente di Francesco doveva già essere ben presente il progetto simbolico-architettonico destinato a quegli spazi.
“Pare che il Principe abbia di proposito scelto una posizione poco amena, sterile e montuosa e anche senza fonte, per il merito di andarle a cercare cinque miglia più in là” così Michel de Montaigne, andando a visitare quei luoghi, riporterà nei suoi scritti e in questa attenta affermazione c’è tutto il rispetto e l’ammirazione per un Principe che coltivava in sé ben altri progetti rispetto a quelli che il suo ruolo d’ufficio gli imponeva.
L’idea di preferire un terreno impervio, sterile, senza acqua, per farlo diventare un luogo idilliaco dove fonti, flora e fauna si sarebbero sposati perfettamente con la genialità del suo ideatore, fu dunque una scelta ben mirata.
Il suo nome originario era Festigliano, ma poi assunse il nome di “Pratolino” e probabilmente il cambiamento fu dovuto al grande prato che vi era nei pressi.
Pratolino è un “diminutivo toscano che riassume la natura tipica dell’Appennino, ricca di pascoli, prati e macchie fitte di sempreverdi”; la sua denominazione non fu data da Francesco I, ma appare già nei documenti anteriori all’acquisto di quel territorio, che si presentava come ampia tenuta agricola di origine rurale. Pratolino fu il nome che venne dato a quel pendio che si stende dalle colline sotto Monte Senario per allungarsi fin verso Firenze e nessun altro termine avrebbe potuto riassumere meglio l’idea di un luogo dove la Natura, grazie alla saggia mano dell’uomo, si sarebbe espressa in tutta la sua varietà e bellezza.
Per “prato” s’intende un tratto di terreno più o meno esteso, coperto d’erba e non ancora coltivato. Dell’“erba” se ne parla anche nelle Sacre Scritture e in quel contesto viene messa in relazione con il verbo “germogliare”, “nascere a nuova vita”: termine che indica una trasformazione radicale ed un rinnovamento.
Dante Alighieri, nel XXXIV Canto dell’Inferno, chiama la terra “la gran secca”riaffermando il pensiero già espresso dal profeta Isaia (Is.40:7) che avvicina il terreno impervio e desertico al cuore arido dell’uomo. Nel Vangelo di Matteo la parabola del “seminatore” ricorda che solo un campo ben dissodato, liberato dai sassi e dalla gramigna potrà generare un buon raccolto.
Francesco I aveva intuito che quando l’uomo e la donna vivono senza un orientamento spirituale è già come se fossero malati nel corpo e nell’anima, “pietrificati” come quelle eloquenti immagini ideate per una delle tre stanze della Grotta Grande di Boboli.
Nel suo pensiero si avverte dunque la presa di coscienza della fragilità umana rispetto alla grandezza Divina e l’ingegnoso desiderio di realizzare l’impossibile per superare se stesso e la Natura, secondo l’antico assioma ermetico-alchimistico “natura vince Natura”.
Fu per questo che Francesco scelse quella località collinare dalle aspre caratteristiche per vincerla, organizzarla ed “ordinarla” portando a quel rude paesaggio amenità, rigogliosità e “nuova vita”.
Nell’atto di porre “ordine” ad un caos originario, si era voluto ripetere la segreta aspirazione di ritornare alla perfezione della Creazione divina, al “Fiat Lux”, l’ “ordo ab cao” espresso nella Genesi .
René Guenon, studioso di simbolismo delle antiche tradizioni, nel suo libro Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, affermò che in qualsiasi civiltà l’atto creativo comporta in sé un carattere “essenzialmente rituale”. Infatti il termine latino “ordo” trova corrispondenza con il sanscrito “rita”che oltre a riassumere in sé il significato di organizzare un universo manifestato, ha assonanza con “rito”, atto compiuto dal Grande Architetto dell’Universo o Grande Geometra che con il compasso in mano segna i confini del globo terrestre.
Fu l’amore per la Natura e per l’Alchimia e la consultazione di trattati ermetici e teologici, a muovere in Francesco il desiderio di mettere in atto un disegno grandioso: ricreare in quelle verdi estensioni un vero e proprio Paradiso terrestre che fosse sempre più affine a quello Celeste.
Il suo intento era di indagare nei segreti meccanismi della Scienza Agraria, nelle sue leggi e nei suoi più minuziosi effetti, per acquisire quel grado sempre più alto di conoscenza che si svela all’animo ben disposto a ricercarla; se Michel de Montaigne arrivò a definire Francesco I “un grande architetto”, fu proprio perché aveva capito la grandezza e la versatilità di questo Principe.
Così quel difficile territorio diventò, sotto le sue direttive, un luogo paradisiaco dove vennero piantati alberi di ogni specie, popolato da ogni tipo di uccelli ed irrigato da infiniti percorsi d’acqua, che andavano ad alimentare fonti e grotte formando sorprendenti effetti scenografici. Probabilmente quella straordinaria rappresentazione iconologica voleva ricordare l’espressione architettonica moresca, ereditata da un’antica cultura persiana, che avvicinava il termine “paraidaeza”o “paradiso” al “sacro recinto”: il Tempio in cui la Presenza Divina si può manifestare.